(Fonte foto: profilo Instagram del calciatore)
Fin dalla sua nascita, nel lontano 1857, il calcio è andato a riempire un vuoto, quello spazio virtuale che mancava per unire le classi sociali sotto uno stesso cielo, sotto una stessa bandiera che non fosse quella per la nazione per cui si andava a combattere. Da subito il football ha suscitato interesse non solo in chi voleva praticare quella disciplina, ma anche in chi rimaneva affascinato da un giuoco che faceva della dinamicità e della vigoria fisica i suoi punti di forza, suddividendo il merito dei risultati tra gli undici cavalieri che si cimentavano nelle sfide difendendo l’onore della città o dei colori per cui giocavano.
Da allora è passato molto tempo e il calcio si è trasformato attraversando più di 170 anni di storia, riflettendo sugli spalti molto spesso pregi e difetti delle epoche vissute, dove spesso si poteva avere un’idea chiara del momento storico che si stava attraversando. Abbiamo visto uomini affrontarsi con aplomb e sportività, poi uomini tendere braccia salutando un ventennio disgraziato, oppure nazionali che ascoltavano l’inno a pugno chiuso. Negli anni successivi sono arrivati i ribelli, giocatori con capelli alla Beatles che abbracciavano mode, assimilando abitudini che anche i tifosi vivevano e il calcio continuava ad unire calciatori e spettatori, fino a diventare il più grande fenomeno di massa e laboratorio sociale.
Dagli anni settanta anche la politica è entrata a far parte di questo fenomeno chiamato calcio e da allora simboli e slogan spesso si sono confusi e mescolati a cori e bandiere nelle curve.
Il calcio ancora oggi riflette le abitudini contemporanee e in questo fenomeno di massa infatti si rispecchiano i limiti dei nostri tempi, i cori a sfondo razziale o gli insulti con riferimento ad una appartenenza territoriale sono più o meno diffusi in tutti i campi di calcio e in maniera quasi automatica vengono codificate, riconosciute e poi superate dal pubblico, senza che le sanzioni applicate per limitare certi fenomeni all’interno degli stadi siano davvero un deterrente affinché certe situazioni non si ripetano più.
Anche all’interno del mondo professionistico del pallone certi muri culturali sono stati scalzati con il tempo, se ad esempio una ventina di anni fa era ancora possibile leggere o venire a conoscenza di episodi di razzismo o discriminazione nei confronti di giocatori di colore all’interno di un gruppo squadra, è molto più raro che accada nelle rose di oggi, dove ormai l’integrazione razziale e di religione sono consolidate e prese come un dato acquisito.
La cosa strana invece è la resistenza che c’è nel mondo del “pallone” a riconoscere l’esistenza dell’omosessualità, come se nel mondo del calcio o il calcio stesso fosse esente da questa possibilità.
Ricordo quando il Presidente della Lega Nazionale Dilettanti di allora, Felice Belolli (molto vicino a Carlo Tavecchio), definì le calciatrici come una “manica di lesbiche”. In quel caso venne utilizzata questa possibilità, venne utilizzato un orientamento sessuale per definire tutto un movimento (ognuno si interroghi se sia appropriato o meno l’utilizzo di questo termine in modo offensivo e denigratorio verso tutte le calciatrici in genere, a prescindere dall’orientamento sessuale).
Parlare di omosessualità nel calcio pare sia un tabù, si direbbe che sia un pregiudizio legato davvero a modi di pensare passati, a quel modo di finto perbenismo che prevede di evitare certi argomenti o di tenere nascoste certe pulsioni o sentimenti “sconvenienti”, ma per chi?
Sarebbe tempo di passare oltre anche su questo aspetto e lasciare che i calciatori, le calciatrici e gli sportivi in genere vengano liberati da questo latente patto di silenzio su questa materia, questo non vuol dire che dobbiamo sapere chi è o non è omosessuale, bensì lasciare la libertà di essere se stessi, riconoscere il diritto di essere liberi a lavoratori che ad oggi, per la loro carriera, devono fingere una vita differente o nasconderla nel peggiore dei casi, per non essere messi in disparte.
Le parole pronunciate da Jakub Jankto lasciano trasparire proprio la presenza di questo muro verso l’omosessualità nel mondo dello sport e del calcio. Forse sarebbe giusto anche in questo caso che il mondo del pallone riflettesse sui tempi in cui vive e cominciasse a sdoganare certi pregiudizi che nulla hanno a che fare con la vita e la professionalità delle persone e che ormai sono dati di fatto perlopiù (fortunatamente) accettati nella nostra società.
Onestamente risulterebbe molto strano che l’intero movimento calcistico, formato da migliaia di praticanti, possa essere esente da questo tema sociale, lasciando nuovamente e ancora più solo il coraggioso Jankto.
Il calcio è di chi lo ama, di chi lo gioca e di chi lo segue, senza distinzioni!