(Foto Gazzetta del Sud)
“Ero sardo tra sardi. Ovunque andassi ero
uno di loro, e questo ha reso tutto speciale”
Gigi Riva
Non ricordo se fosse una estate particolarmente calda quella del 1970, anche perché ero un bambino tendente ancora all’infante, ma ho ancora in mente il giorno dopo della semifinale mondiale Italia Germania, quella che da allora viene definita la partita del secolo e che ci vide superare i tedeschi dopo dei tempi supplementari epici. Ricordo bene il giorno dopo, dicevo, perché gli adulti erano veramente increduli ed entusiasti per ciò che avevano visto. Loro, gli adulti, erano tutti tecnici e operai della Montedison, gente abituata a lavorare sodo e temprata dalle proteste operaie che provavano ad opporsi ad una società industriale in vorticoso cambiamento radicale in atto e che ne stava erodendo diritti e quantità di salario faticosamente conquistati. Erano mio padre e i suoi colleghi. Ricordo nitidamente i loro volti attraversati da temporanea felicità, finalmente in sospensione, anche se solo per un attimo, dalle tensioni della vita dello stabilimento. Se lo meritavano quell’attimo di felicità, perché quella era gente che aveva contribuito a creare la ricchezza del nostro Paese e il suo successo nel mondo. All’epoca non ero consapevole di tutto ciò, ma mi fidavo delle emozioni e delle parole di mio padre e dei suoi colleghi, e queste emozioni quel giorno avevano sostanzialmente due nomi: Gianni Rivera e Gigi Riva. Rivera, poco prima della partenza per l’avventura messicana, era stato duramente contestato da degli studenti universitari in una nota trasmissione Rai in cui aveva accettato di essere ospite. Erano gli anni della dura contestazione studentesca, dove persino molti iscritti all’Università Cattolica di Milano avevano scelto di collocarsi in una sinistra estrema che mal tollerava i privilegi come quelli dei calciatori lautamente pagati. Il giocatore del Milan, assoluto idolo delle folle, in quella trasmissione fu riempito da tante di quelle contumelie da esserne quasi incenerito nell’animo. Cosa che oggi sarebbe impensabile vista la trasformazione dei calciatori in divi da marketing, ma allora il nostro sport nazionale era ancora un evento sociale e a ciò doveva renderne costantemente conto. Mentre Rivera proseguiva il suo difficile rapporto con la stampa e con l’opinione pubblica, Gigi Riva continuava a mantenere un profilo basso nonostante all’Amiscora, a quel tempo casa del Cagliari, il 12 aprile i cagliaritani avevano conquistato uno storico scudetto guidati in panca da Manlio Scopigno. Il fuoriclasse di Leggiuno con i suoi gol porta per la prima volta uno Scudetto nel meridione, e se non si conosce la storia d’Italia davvero non si può capire la portata dell’impresa. Tutto succede contro ogni logica o pronostico, all’interno di un calcio antico e virile: “ho vissuto- ricordò un giorno Riva – un calcio in cui certi liberi tiravano una riga vicino alla loro area e dicevano ‘se la passi ti spacco’. Tempi per cui ottenere un rigore a Milano o a Torino non bastava un certificato medico di 15 giorni”. Era l’icona incontrastata di un’isola, il verbo del calcio che si era fatto carne e determinato a non abbandonarla mai, deciso ad essere un sardo tra i sardi. “Ovunque ci chiamano banditi e pecorai, ed io proprio non me la sono sentita di abbandonarli”, raccontò in seguito cercando di motivare il suo gran rifiuto alla Juventus e agli Agnelli. Riva è stata la prova vivente di come sia fallace uno degli aforismi più noti di ogni tempo, ovvero che ogni uomo ha il suo prezzo. Nel 1973 rifiutò un miliardo, dicasi un miliardo di quei tempi, e tutti i benefit che la vicinanza con gli Agnelli gli avrebbe procurato per non tradire le speranze di un’isola intera, e rimanere così vicino alle attese di una classe operaia e contadina che in lui vedevano una sorta di riscatto e resurrezione. Aveva scelto di rimanere accanto alle speranze di gente come mio padre e i suoi colleghi. Pensate un attimo a tutto quello che conoscete, a tutto ciò che vi sta attorno, a tutte le esperienze che avete vissuto, e poi provate a trovare attorno a voi una persona simile. Il padre Ugo, di cui presto era rimasto orfano, era stato decorato con una medaglia al valore di bronzo durante la Prima Guerra Mondiale. Figlio, quindi, di uno dei “Ragazzi del 99” impavidi nella “corsa” quotidiana sull’Altopiano di Asiago, dovette sopportare anche la successiva scomparsa della madre Edis e della sorella Candida. Aveva tutto il diritto di detestare la vita, eppure in Sardegna aveva trovato una causa per cui vivere e amare il suo destino. Con Fabrizio De Andrè si erano trovati nei lunghi silenzi e nella contemplazione della campagna sarda, un’amicizia granitica di due diventati sardi per convinzione esistenziale ed ideologica. Forse il pescatore che “aveva un solco lungo il viso come una specie di sorriso” della celebre canzone del cantautore ligure era proprio lui, Riva. Non gli piaceva come si stava trasformando il mondo del pallone, non gli piacevano gli entourage attorno ai giocatori, rimaneva attaccato al calcio grazie all’amore sconfinato per il Cagliari e per la Nazionale. “Per me la maglia più bella resta quella bianca dello scudetto, pulita e senza sponsor”, e se penso che qualche imbecille allevato ad internet e marketing possa avergli dato del “boomer” non a passo con i tempi, faccio fatica a contenere la carogna. Uno che non si era mai venduto ha dovuto passare gli ultimi anni della sua vita a vedere uno sport così da lui tanto amato offrirsi come una meretrice al miglior offerente, con gli arabi che hanno fischiato il minuto di silenzio a lui dedicato perché lì non si usa ricordare i defunti in questo modo. E’ naturalmente una vergogna, ma quando decidi di venderti nemmeno l’anima rimane più tua. Rivedo passare davanti l’Italia in molti appuntamenti cruciali della sua storia, le lotte operaie, le chiusure di molte fabbriche, i nostri emigrati all’estero(non posso nemmeno immaginare che gioia abbiano provato in Germania dopo quello storico 4 a 3), la volontà di non arrendersi mai, la paura di perdersi e di perdere ogni cosa, e capisco perché in queste ore il Paese si è stretto attorno al ricordo di Riva: abbiamo un disperato bisogno di esempi e di ricordi buoni. “Non si preoccupi, saremo sempre in debito con lei”, sono state le ultime parole rivolte a Rombo di Tuono da parte del primario di cardiologia dell’ospedale Brotzu di Cagliari. E’ stato l’ultimo atto di devozione da parte di un popolo che lo ha amato rispettando i suoi silenzi. Da quelle parti, siatene certi, non lo dimenticheranno mai e ogni sardo starà facendo in modo di essere presente alle sue esequie. Sarà un ultimo saluto sentito come raramente se ne sono visti, in omaggio ad un uomo coraggioso nel non tirare mai indietro cuore e gambe per regalare al suo popolo un momento di gioia. Proviamo a raccontarlo ai più giovani: “c’era una volta un uomo che fu capace di dire no, quando tutti erano pronti a dire sì. Ascoltate con attenzione, perché è una storia davvero straordinaria. Allora, tutto parte da Gianni Brera fu Carlo. Sì, quello che lo soprannominò Rombo di Tuono”…