(Fonte foto: Tuttocampo.it)
…ciò detto, è facile intuire che genere di giocatori uscivano ed escono da quelle esperienze, dei vietcong del pallone avvezzi alle scorrettezze più disparate e alle furbizie più sottili, un purgatorio fatto di gambette, gambegiggie, sbracciate, pestoni che metterebbero in crisi qualsiasi sprovveduto che volesse cimentarsi in tale sfida. Io ricordo come nascevano le squadre nel mio quartiere in modo molto lineare, limpido, non poteva esserci margine di contestazione, a seconda del nome del torneo si adottava il criterio unico dell’appartenenza, se la competizione si chiamava “Torneo dei bar”, la squadra poteva essere composta solo da frequentatori di quel bar. Sempre nel mio quartiere al Torneo dei bar potevano iscriversi anche trattorie e osterie, va da sé che, tra i giocatori, qualcuno con problemi con il vino o con il camparino c’era e siccome l’età variava tra i 16 ed i… finché uno se la sentiva. Il tutto diventava una miscela esplosiva.
Nel Torneo delle vie, invece, il criterio per fare la squadra era quello di utilizzare solo residenti nelle vie che davano il nome alla squadra, naturalmente, unica concessione al “calci(o)mercato” poteva essere quella che se un ragazzo frequentava assiduamente i ragazzi che abitavano in un’altra via poteva essere messo in squadra con loro, i ragazzi invece che abitavano in vie che non facevano squadra potevano essere presi liberamente.
Questi li ricordo come i due Tornei principali della mia gioventù e poi anche dell’età più matura e come detto, potevano partecipare tutti gli ardimentosi dai 16 anni in poi, tutti limitatamente al buon senso (quale?) e davvero si poteva trovare l’umanità più varia racchiusa tra la maglia numero 1 e la maglia numero 11: l’avvocato, il muratore, il figlio della tabaccaia, il trentenne tossico e disoccupato (le catenine e gli orologi che sparivano a quei tempi erano all’ordine del Torneo). Ricordo una volta in cui un ragazzo che giocava nelle mia squadra, con problemi di tossicodipendenza si presentò in botta, ne scaturì una discussione tra noi compagni, chi sosteneva che non poteva giocare, chi invece diceva che magari 10 minuti avrebbe potuto, qualcuno disse che bisognava chiamare sua mamma… alla fine risolse la questione l’arbitro, nella vita reale il calzolaio del quartiere, sentenziando: ”COL CAZZO CHE GIOCA!”
Una volta chiusa questa pratica, il direttore di gara passò alle consuete raccomandazioni: “Mi raccomando, fate piano con i calci. Se proprio dovete darli, dateli piano e non picchiatevi. Non litigate con la gente fuori, quando fischio dovete fermarvi e darmi retta e non fatemi incazzare se no me ne vado!” Erano momenti di tensione palpabile. Due ore dopo, terminata la partita, rientrammo negli spogliatoi e il compagno interdetto alla partita per problemi, stava dormendo ancora sulla panca.
Gli arbitri sono un altro capitolo curioso di queste storie, eroi dediti al martirio che spesso entravano in spirali di polemiche e violenza senza sapere come ci erano finiti ma soprattutto, come uscirne… però il capitolo arbitri lo vediamo tra qualche giorno.